Benvenuti a Black Mountain

La fiancata sinistra dell’autobus divora la linea di mezzeria della strada come se fosse un Pac-Man. Il rombo del motore tossicchia sotto le suole delle mie scarpe. Il sole è calato dietro le montagne, ormai, e la luce è poca e, allora, l’autista, un tizio scorbutico di mezza età, ha dovuto accendere le luci. Luci che feriscono l’aria nebbiosa di queste parti.

A un certo punto, un’insegna sfreccia fuori dal finestrino alla mia destra. L’ho letta a malapena:

Benvenuti a Black Mountain.

3.396 abitanti.

Il legno cadente, i colori sbiaditi. Chissà da quanto non l’aggiornano.

L’autista fa capolino: «Black Mountain! Siamo a Black Mountain». Fa per rivolgersi a me attraverso lo specchietto interno: «Ehi, tu! Sei stata tu a chiedermi di avvisarti, no?»

Annuisco istintivamente, anche se probabilmente non può vedermi. «Sì. Grazie mille!».

«Ti avviso che la fermata è fuori città. Dovrai camminare un po’ per arrivare al centro abitato. Non so perché l’abbiano messa così fuori…»

Ringrazio di nuovo, distrattamente.

Scendo dal predellino, mentre le luci rosse dell’autobus si allontanano e spariscono dietro una curva. Sento la fredda umidità dell’asfalto crepato sotto i miei piedi.

E, quindi, eccoci qua! Di nuovo a Black Mountain, come ai bei vecchi tempi.

Prendo la strada che va verso il paese col peso della mia sacca da viaggio sulle spalle come unico compagno. Il freddo serale dei boschi mi entra sotto la giacca di pelle lisa. Abituata com’ero al clima temperato della costa, non ricordavo più che qui, sulle montagne, facesse così freddo. Dovrò rifarci l’abitudine, a quanto pare.

Cammino da un sacco, ormai. Se dicessi che non ho le gambe stanche, mentirei. Del paese, ancora nessuna traccia. La memoria potrebbe aiutarmi a capire quanto manca, ma si sa che, di notte, tutti gli spazi appaiono dilatati. La paura del buio ci contraddistingue, come umanità, e io, ora, so che quella paura non è senza motivo.

Sento dietro di me il motore di un pick-up. Chissà se saranno così gentili da darmi un passaggio. Mentre si avvicina, leggo la scritta su di esso:

Dipartimento dello sceriffo di Black Mountain.

Il veicolo accosta, il finestrino si abbassa e io mi sento, ancora una volta, fottuta. Dannatamente fottuta.

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